Simùn il vento
Prefazione di Paolo Messina


In tempi (i nostri) di assordanti amplificazioni elettroniche, di fanatismi e violenze d’ogni genere, la poesia cerca forse luoghi più appartati, più intimi, pur non chiudendosi, certo, nelle torri d’avorio, poiché le torri (d’avorio o di argilla) sono state ormai quasi tutte abbattute e i poeti non hanno più bisogno di alibi.

Oggi ogni scelta può essere consapevolmente autentica quale che sia la versione prospettica e l’idea programmatica nell’esprimere la propria verità.

Maria Stella Filippini sa che la verità nutre il silenzio e che le parole possono anche falsarla ove corrano eccessivamente oltre le barriere semiotiche, oltre il loro minimo indispensabile esserci in quanto tracce di un atto essenziale, unico, effimero, sicché le sceglie cautamente, le intreccia nell’aria della sua delicata phonè, poi, con un gesto anch’esso lieve, appena accennato, le cancella, quasi nel timore che, insistendo, la voce possa corromperle, travisarne la verità.
Per essere vere, debbono insomma apparire, mostrarsi come “una nube d’aria / un riflesso di luce-ombra / una traccia (appunto) da cancellare / con rapido gesto”. Tra presenza e assenza, c’è solo una fugace intuizione.

Questa a me sembra la poetica di Maria Stella Filippini dalla sua prima (credo ) raccolta, Così che io possa del 1995, a quest’altra dal titolo Simun, il vento che non crea necessariamente un rapporto di presupposizione, ma ne rivela anzi e illumina lo sfondo da cui la precedente selezione venne in primo piano, mostra il mondo dell’autrice con una sua implicita datazione (tranne il riferimento tematico al 9 agosto 1945), con una sua mappa sentimentale, le radici degli stilemi, le occasioni colte e quelle mancate (magari per eccessivo amore), la grazia tutta muliebre del canto.
In effetti il Simun del titolo, il vento caldo soffocante e terribile dei deserti africani e arabici, al tocco di quella grazia si converte in zefiro, in carezza, cioè nell’onda carezzevole della memoria delle ridondanze mnemoniche in cui i fatti godono di una variabilità consona all’attuale sentire, oltre il loro proprio tempo, si converte in metafora, in un vento, poniamo, di passione preso nel vortice di un altro vento, di un tornado.

Questa perifrasi (nel senso di Roland Barthes) consente tuttavia di dare un nome alla poetica di Maria Stella Filippini, un nome orientativo nel quadro alquanto sconnesso della nostra poesia (incorsa ieri nell’equivoco sperimentale, quasi che il mero gioco potesse sopperire al vuoto d’ispirazione in cui ci trovammo ad operare negli anni Sessanta con la caduta dell’impegno), il nome di minimalismo o neocrepuscolarismo, nella necessità di recuperare gli oggetti poetici perduti a causa dell’astrazione metalinguistica, di recuperare un minimo di mondo cui potere in qualche modo affidare nuovamente il proprio ubi consistam. E qui si può assumere come dichiarazione programmatica (ma liricamente svolta) la poesia dal titolo Quanta pena, collocata in apertura della raccolta.

Ecco l’origine di questo ininterrotto fluire d’immagini e lasse, un vento, il Simun, che con sé tutto trascina miraggi e sabbia, splendide occasioni e luoghi lirici in fieri, il fiore aperto e il seme (ancora nella bustina), ma sull’onda sempre della sua musicale aritmia, della sua variabilità, dal tempo dell’atto a tempo della memoria, dall’esserci all’essere, in attesa dell’evento: “la voce che apre il silenzio”.
Alla grazia, all’incanto della voce, nell’economia di queste tessiture liriche, oltre ai correlati sensi, abbiamo anche accennato: infine di queste poesie ci rimane indosso il profumo, come di fiori appena colti e donati.

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Edizione a cura del Centro Studi Giulio Pastore - anno 1998
Pubblicazione realizzata con il contributo dell'Assesorato Regionale ai Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione
In copertina illustrazione di Ester Cremona

simun
 POESIE   prima parte  |  seconda parte


Spinge odore di frappe
       la brezza
Nella tregua è in estasi l’occhio del cielo
lambito da cirri e olezzo di mente
da terrazzi scalanti
Su devastati viottoli cumuli di neve rossa
orme d’argilla di sparuti viandanti
Mattinieri focolari
sonno di bimbi cullano
e sogni di silenzio
di passeri implumi nel nido
Da cucine da campo sotto abeti spogli
spinge odore di frappe la brezza
e un dolce canto
"Marialao...lasciati baciar"

Sull'anice stellato dell'orto di guerra
un'apollo ferita ancora di vedetta sta.
Dimmi suoni ancora il sitar
       vestito di luna
ché bianco lunare era la veste
Scivola ancora lo sguardo
su invisibili specchi replicanti l'attimo
infinito, e sempre doni allo spazio
il canto che cullava l'amore?
Io ho cancellato la notte e sotto la luna
fuggono alla canizza angeli
senza ali né scarpe
uomini recisi atolli alla deriva
visi bruni dove si è spento il sole
e labbra mute al canto
E tu dimmi odoroso di sandalo
tra iridi fiorite riempi ancora di note
anfore di petunie suonando il sitar?
...
Sta per piovere
       seppelliscono un uomo
sotto la martoriata terra ch'è rossa laggiù
e un altro a braccia aperte
dell'ultimo respiro si spoglia
-sosta per poco l'anima al confine degli occhi-

Quando drenerà tutto l'orrore la Driade
e stuoie tenderà Pietà e drappi ai fossi?

Piange gelsomini l'azzurro volto dominante
Soltanto loro, gli arresi, alla fine si bagneranno

Urlando vanno gli erranti sulla strada di Goma.
Scorrono lungo draglie
       fasci di acanto e alloro
e di vertigini bianche racconta
e di bandiere avvolte il lupo alla vedretta

E' pesante come roccia ogni lacrima
nel campo di Mostar
ogni mano straniera
e uomini di pace cadono su gusci di gesso
Crepita la mitraglia
Nel quasar di terra la vita già fugge e scolora

Al canto di boschive fate
più non risponde il rondone, più non vola.
Scioglie i veli la notte
       e nel silenzio
ogni cosa sfuma e attonita sta

L'eco di Giorno circuisce Luna
e logiche di tempo ignora
Languiscono parole nel tessuto del ragno
mentre dondola bambole l'Auriga
e matriosche dagli occhi in piena
l'ebbro torrente che in altre terre scorre

Ascolto suono di nacchere, vibrare di zufoli
e tremori di tristi mandole
Il richiamo mi strugge
Da quale tenebroso vano,da quale fortezza
giunge il pianto e quale trama nascondono
il ciuffo violetto del cardo e l'icastica voce?
Vidi la colomba nuova nata
       disegnare un volo
la rincorsi
volli fermarla
credei di stringerla
mi scivolò tra le dita
e nel nero delle nuvole
volteggiando improvvisa si perse
Da quel giorno
ogni giorno colme di semi
le mani a conca protendo
perché‚ torni e si fermi
e con pagliuzze di sole
-è di tutti il sole- il nido prepari
e fecondi sotto la gronda del mondo.
Dietro lo scudo
       sinuose gallerie dell'anima
represso bang d’intenti
bavagli sulla bocca
per libere parole e tanta polvere
quanta su giusti progetti
che il tempo accantona

Davanti allo scudo
contingenza del vivere
triboli negli occhi
invisibili mani
che lambiscono e feriscono
e sul sentiero
sempre la prudenza del passo.
È lunga la ferrata
       treno che corri

Quante fermate segnate da croci
nel tuo andare
ad ogni sosta
un fiore appassito un'ombra che sfuma

Tu le ore cancelli all'arrivo
e il rischio metti in conto
come il passeggero in attesa
che il suo bagaglio soppesa.
Il tempio di sterilità
       innalza colonne
Stillicidio di rintocchi
da campanili vuoti d’uomini e rondini

Sulla piazza degli alberi
spente foglie cadono vinte
da scheletrici rami rosi dal sale

Il vento radioattivo in solchi di terra morta
preagonici simboli di trascorse opulenze
sacchetti di cellophane sospinge.
Viviamo
       prigionieri di noi
solleticando il cielo
giganti negli intenti
piccoli nell’operare

Se solo allargassimo le braccia
e le bende togliessimo agli occhi
senza ombre né ganci
       metteremmo le ali.
In discesa d’asfalto
       rotolano perle nere
e magnolie in boccio portate dall'Est
che nella notte rostro crudele
        trafigge.
Si animano i boulevards
       dalle vetrine natalizie
luci violentano visi e corpi

Non mi compenetra affatto
la gioia che vedo estrema e fittizia

La valenza contesto di questo effimero
mentre intorno vite si scompongono
e gridare a viva voce vorrei

Fermatevi, fermatevi a pensare
non siamo robot.
Da sillogismi
       nascono pensieri
su ciò ch’è stato e su ciò che sarà

Al nostro primo apparire
ci fagocita il destino
Nessuno al suo comando sfugge

Soltanto il passato letto e riletto
nel lento dispiegarsi di un film
è certezza innegabile

Del futuro siamo timonieri ciechi
di una zattera che alla deriva và.
Le anime degli uccelli
       che negli abissi
volano sfiorando l'orizzonte
e il cuore della gente
che nelle arteriemetrò
scivola lenta e il mistero
della notte nei suoi occhi
e il ventre della terra fecondo
e il silenzio e la musica
l'assoluto il niente
e te cantiamo
Libertà
       che liberi ci rendi.