Con ali di cigni le falene
... segue prefazione di Dino Ales


Maria Stella Filippini ha scritto i versi di questa raccolta sull’onda delle forti emozioni che in lei ha suscitato la “Valle delle Pietre Dipinte “, gigantesca opera su grandi cippi appositamente situati in una valle alla periferia di Campobello di Licata in provincia di Agrigento.
Emozioni che nascono, dalla pittura forte e sanguigna, mistica e realista ad un tempo, del maestro Silvio Benedetto che sta ripercorrendo gli eventi immagini del viaggio dantesco, del quale ha terminato la prima cantica, traducendoli in segnali drammatici e potenti innescati nel territorio.

Dal colore, quindi, dalla forte e magica figurazione benedettiana, ma dalla natura, anche, e poi dalla meditazione sugli eterni princìpi, sul tempo, sulla storia... da questi presupposti nasce il magico momento di poesia.

Vi è da dire, pertanto, che una sua densa figuralità, al di là dell’incontro con l’opera del pittore argentino, ha questa poesia della Filippini: una figuralità che nasce dal suo rapporto con la Sicilia profonda, che è come posta sopra un crinale che separa un mondo solare , denso di luci abbaglianti e di colori, da un mondo diverso, luttuoso e buio, triste e lunare: “...s’illumina di luna che piena/scivola su lapidarie margherite...” “...nella notte tutta di metalli azzurri” e poi “pennellate di fuoco/di ghiaccio.../ - e ancora - “Lontano un vago bagliore/bruciano le stoppie/Fiorisce il cielo...”- “Aquile bianche sembrano le pietre/che fanno danzare i colori...”- “Con grandi di cigni/sorgeranno dal fuoco le falene...” due versi, questi ultimi di suggestiva bellezza, che danno il titolo alla raccolta.

Il suo verso libero è, a me pare, in perfetta corrispondenza e adesione al concetto stesso di colore che costituisce una notevole presenza e una considerevole forza in tutto il suo itinerario poetico: Un colore fisico e nel contempo concettuale, spirituale nella sua innocenza, nella purezza del suo linguaggio lirico.
Verso libero, dicevamo, cui ci ha ormai abituati la poesia moderna e contemporanea, ma non privo di rigore formale: e libertà e rigore danno a questi versi della Filippini una tensione culturale molto legata al sentire poetico del presente; un presente non effimero, ma della coscienza profonda, che si confronta drammaticamente con la temporalità e l’eterno.

Una poesia dalle molteplici valenze simboliche, anche questo in sintonia con molta poesia di oggi che rivaluta e riassorbe, tra l’altro, momenti del Simbolismo del Novecento e che denota l’esigenza di catturare il senso oscuro del presente e del divenire.
Il poeta in generale ma la Filippini con particolare tensione, come questi suoi versi ci suggeriscono, tenta di uscire fuori dalla propria esperienza individuale per considerare, decodificare poeticamente il destino collettivo.

Vi è in questi versi come una mistica della contemporaneità, una coraggiosa e nel contempo dolorosa volontà di essere dentro il tempo e il mondo.
Un’accettazione della contemporaneità vissuta con il coraggio di opporre un netto rifiuto a ciò che di questo tempo non è condivisibile e va condannato.
Va condannato, all’unisono con Dante, l’inferno di questo presente: i lavatori di cervelli, gli eretici, gli usurai, i violenti, i fraudolenti...ogni male del mondo.

Una poesia concepita, quindi, questa della Filippini, per esserci e non per evadere: per affermare la propria esistenza in quanto poeta e cioè, persona umana che usa la parola per raccontare la sua anima ad altre anime e per lanciare al proprio tempo molteplici messaggi. Uno di questi, e tra i più pressanti, è quello della speranza: “...partiremo un giorno / alla ricerca del perduto approdo / Navigatori di cristallo / come Ulisse seguiremo la rotta / alla volta del Sole...”

Un sole concepito come origine e simbolo di luce, da sempre espressione della magnificenza e dello splendore divini.

Qualcuno ebbe a notare, nel passato, nella poetica della Filippini, la presenza di “un pessimismo storico, cosmico, esistenziale” pur essendo, comunque, il suo, un “canto libero...un inno alla vita“.
Oggi a me pare, l’attuale sua stagione poetica alquanto liberata dal pessimismo di cui prima e caratterizzata, semmai, oltre che da una più compiuta maturità, da un uso della parola più consapevole e più adeguata a navigare non soltanto negli spazi metaforici della sua “Valle”, ma in quelli del sogno e, soprattutto, nelle atmosfere e nelle dimensioni alte del pensiero.
E’ una riprova, questa che ci offre la Filippini con l’ultima sua silloge, che la poesia, al di là di ogni sua crisi, riesce sempre a trovare e a darsi nuove strategie per recuperare il proprio senso, per trovare il proprio nuovo e reale contatto con il mondo...con i contemporanei.

La Poesia non può certo definirsi se non che nel ”...suo farsi” ed una definizione probabile di essa mi sovviene dalla lettura dei versi di Maria Stella Filippini Di Caro: “...quel sogno fatto in presenza della Ragione”. Così Tommaso Ceva, già nel ‘700.


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